Occupazioni e dintorni.

Ho visto ragazze e ragazzi mobilitarsi per Gaza e l’istruzione. Li ho visti autogestire, occupare, scrivere documenti, prendere posizione, fare assemblee. Ho visto altri studenti partecipare all’occupazione solo per l’emozione di dormire a scuola e altri ancora rimanere a casa sotto le coperte. Ho visto genitori accompagnare i figli con il sacco a pelo e altri furibondi chiedere l’intervento della polizia. Ho visto occupanti danneggiare la scuola e altri ripulirla come se fosse casa propria.

Ho visto insegnanti lamentarsi per il tempo sottratto alle lezioni e altri felici di vedere finalmente i ragazzi che si mobilitano. Ho visto presidi dialogare con gli studenti in agitazione, altri scoraggiarli con toni paternalistici, altri ancora indignarsi e minacciare punizioni e sgomberi.

Poi sono successe tante altre cose. Alcune si possono raccontare, altre no.

È successo che una notte in una scuola degli esterni abbiano cercato di forzare la sorveglianza degli studenti per vandalizzare gli ambienti, come avvenuto in altre scuole. Ma i ragazzi, tra mille difficoltà, sono riusciti a impedire che entrassero. E allora loro hanno scaricato la rabbia all’esterno dell’edificio. È successo che la notte successiva siano arrivati molti universitari in soccorso degli occupanti e che docenti e preside abbiano organizzato un presidio serale per tutelare l’incolumità dei propri studenti e il loro diritto di manifestare.

È successo anche che un giorno preside e vicepresidi siano andati a monitorare l’occupazione e non abbiano trovato nessuno, solo il cancello incatenato. E che al telefono gli studenti abbiano risposto: “Ci siamo allontanati perché io avevo l’appuntamento dalla psicologa, un’altra il pranzo dai nonni, ma poi torniamo e proseguiamo l’occupazione, eh”.

Ecco, le mobilitazioni studentesche sono mondi fantastici e controversi in cui succede di tutto. Perfino che insegnanti e preside corrano in soccorso dei propri studenti illegali se li sentono in pericolo e che i ragazzi facciano occupazioni a distanza. O in Dad, come si direbbe oggi.