Mi capita di assistere a un colloquio tra un padre e un figlio adolescente. «Quest’anno ho intenzione di andare a parlare più spesso con i tuoi insegnanti, l’anno scorso l’ho fatto poco». «E che ci vai a fare?». «Come che ci vado a fare? Per sapere come vai a scuola». «Ma tanto si sa già quello che ti dicono. Te lo posso dire io». «E che mi dicono?». «Che un po’ studio, ma che dovrei impegnarmi maggiormente. Che in classe non partecipo come dovrei. Insomma quelle cose tipo: “è intelligente, ma potrebbe fare di più”». «E tu perché non fai di più? Perché non ti impegni di più? Perché non studi di più?». «Perché faccio quello che mi sento di fare. Poi non è solo responsabilità mia. Anche i prof dovrebbero domandarsi come mai i ragazzi non danno tutto quello che possono. Magari non ci appassionano. Magari potrebbero porsi in un modo diverso invece di dire solo che noi non facciamo abbastanza».
Un passo di un bel libro di Domenico Barrilà, uno degli psicoterapeuti più attenti e sensibili al mondo degli adolescenti, recita così. “Qualsiasi comportamento nasconde il bisogno profondo di essere “visti”, individuati, liberati dall’angoscia dell’anonimato che sovente ci opprime, dal timore di passare inosservati. In un campo di papaveri siamo attratti dalla bellezza dell’insieme, difficilmente ci soffermiamo su un singolo fiore; tuttavia, se uno di quei papaveri fossimo noi, l’atteggiamento panoramico degli osservatori ci apparirebbe frustrante, ferirebbe la nostra sensibilità”.
Ecco, la sensazione è che troppo spesso la scuola vede una classe come un campo di papaveri. Non distingue, non riconosce, non valorizza le singole individualità. Quante volte capita che non ci accorgiamo dei talenti dei ragazzi, salvo poi scoprirli fuori dalla scuola? Quante volte succede, ad esempio, di andare in gita scolastica e stupirci perché i nostri studenti ci rivelano tratti del loro carattere che non abbiamo notato durante le lezioni? L’adolescente che dialoga con il padre in fondo ci indica una strada. Se vogliamo che a scuola i ragazzi diano il meglio di loro, dovremmo guardarli. Meglio, vederli. Non trattarli come papaveri. Perché non sono papaveri. Forse assomigliano più a dei girasoli. Si girano verso di noi (e verso il mondo) solo se siamo capaci di illuminarli.