Mi avvisano che in palestra due ragazzi hanno litigato e sono venuti alle mani. Uno ha avuto la peggio. Si è ferito alla testa, ma non ha voluto che chiamassimo l’ambulanza. Poi è sparito. Ha deciso di tornare a casa senza avvisare. Nel frattempo, i suoi compagni arrivano in vicepresidenza prendendo le sue difese e sostenendo che è stato aggredito. Mi affaccio in palestra per capire meglio. Incontro prima i professori. Mi dicono di non aver visto bene l’episodio. Hanno cercato di ricostruire i fatti, ma le versioni divergono. Chiamo allora il ragazzo rimasto a scuola e chiedo di raccontarmi cosa fosse successo. «C’è stata una pallonata involontaria, l’altro ragazzo mi è venuto a brutto muso. I toni si sono alzati, poi lui mi ha spinto e c’è stata una colluttazione. Ha battuto la testa, ma anche io ho preso una botta al naso e ho perso sangue. Comunque con la testa non si scherza, mi spiace si sia fatto male». Gli dico naturalmente che alzare le mani non va mai bene e che avremmo valutato la cosa. Cerchiamo di capire come sta lo studente andato via da scuola. Per fortuna, non ha nulla di grave. Parlo con gli insegnanti, che mi raccontano due storie di ragazzi diversamente difficili e invitano ad avere comprensione.

Nei giorni successivi lo studente che era andato a casa non torna a scuola. Ha l’orgoglio ferito per aver avuto la peggio. Quando rientra, attendiamo qualche giorno che si ristabilisca la calma. Poi li convochiamo entrambi. Lui entra in presidenza come John Wayne nei saloon e si siede senza dire una parola. Inizio il mio discorso. «Ragazzi, non so bene come siano andate le cose, ma sapete che avete sbagliato entrambi. A noi non interessa prendere provvedimenti, ci interessa che abbiate capito che quello che è successo non va bene e non deve ricapitare. Possiamo chiuderla qui e ricominciare?» Si vede che hanno capito, ma stanno zitti. «Avete qualcosa da dire?». Silenzio. «Va bene, andate. Se vi va, potreste stringervi la mano». A John Wayne non va e decide che è il momento di parlare. «La parola vale più della mano».

Ci sono ragazzi con mille ferite nell’anima. È davvero complicato leggere i segnali che ci mandano, interpretare la grammatica delle loro emozioni e della loro comunicazione. Ma è necessario che proviamo a farlo, se vogliamo sperare di trovare le parole e i gesti giusti per stare loro vicini. Altrimenti tutto il nostro lavoro rischia di essere inutile.