Sta per alzarsi il sipario sul rito degli scrutini finali. Che potremmo affrontare, per una volta, rinunciando alle solite retoriche.
Quella degli integralisti della meritocrazia, ad esempio, che tutti gli anni chiedono un aumento delle bocciature per preservare la serietà della scuola. Dicono. Dimenticando però che, se molti ragazzi vengono bocciati, la scuola ha fallito il suo compito. Ma tanto per loro è sempre colpa di qualcun altro. Dei ragazzi, delle famiglie, della società (che poi non si sa chi sia). In genere finiscono rimpiangendo i bei tempi andati, quando gli studenti erano educati e rispettosi. Anche se in quei bei tempi, con tanti bravi ragazzi, i bocciati erano molti di più.
Poi c’è la retorica delle anime belle, che trovano sempre una qualche ragione psicologica, sociale o culturale per non bocciare nessuno. Perché per loro la colpa non è mai degli studenti. Poverini. E’ sempre degli adulti e della società (anche qui). Poi si allargano accusando il sistema politico, fino ad arrivare, di solito, all’imperialismo americano. «Scusi, ma se un ragazzo non studia, non sarà mica colpa di Obama?». «Preside, ma come fa a non capire che è tutto collegato?». Niente, non lo capisco.
Agli scrutini si vedono altre cose sociologicamente (e psicologicamente) interessanti. Presidi che vogliono promuovere perché hanno paura dei ricorsi. Docenti che mettono insufficienze tutto l’anno ma poi presentano tutti con sei e altri che dicono «è uno studente bravo, ma disturba sempre e io gli do quattro, così impara».
Forse potremmo cercare un filo di senso. Domandandoci intanto se la scuola ha fatto tutto quello che doveva fare. E poi stabilendo che si promuove o si boccia se questo è nell’interesse del ragazzo e della società. Magari scopriamo che così decidere è più facile. E che i due interessi, sorprendentemente, coincidono.