Venditore: “Almanacchi, almanacchi nuovi. Bisognano, signore, almanacchi? “Passeggere: “Almanacchi per l’anno nuovo?” “Sì, signore.” “Credete che sarà felice quest’anno nuovo?” “Oh,  sì, certo”. “Come l’anno passato?” “Più, assai.” “Come quello avanti?” “Più, più, illustrissimo.”… “Non vi ricordate di nessun anno in particolare che vi paresse felice?” “No, in verità, illustrissimo”…” Quella vita ch’è una cosa bella, non è la vita che si conosce, ma quella che non si conosce; non la vita passata, ma la futura. Coll’anno nuovo, il caso incomincerà a trattar bene voi e me e tutti gli altri, e si principierà la vita felice. Non è vero?” “Speriamo”. “Dunque mostratemi l’almanacco più bello che avete”. “Ecco, illustrissimo, cotesto vale trenta soldi”. “Ecco trenta soldi”. “Grazie, illustrissimo. A rivederla”. “Almanacchi, almanacchi nuovi”. Mi è capitato di ripensare a questo dialogo, mentre mi trovavo in mezzo ai tanti “pisserai magici” che parlano di scuola cercando di portare le masse nel campo dell’ottimismo cieco o in quello delle profezie di sventura. Esprimono posizioni culturali, ideologiche, forse antropologiche, che si scontrano a priori, procedendo per semplificazioni che non tengono conto della complessità delle cose. Più un parlarsi addosso che un dialogare, che serve solo a legittimare sé stessi, a giustificare la propria ragion d’essere. Si cerca la battuta ad effetto, la polemica pretestuosa, rinunciando alla fatica del ragionamento ed al riconoscimento delle ragioni dell’altro. E tu speri sempre che arrivi un toscano di quelli veri, che ci metta tutto il suo sarcasmo per dire: “Scusate, vi scomoda troppo andare più in là a fare codesti discorsi, che qui s’avrebbe da lavorare?”