Primo giorno dell’esame di maturità. Gli studenti entrano in fila indiana, salutando educatamente. Alcuni sorridono, altri sono tesi. Si siedono, cercando di impossessarsi dei posti più ambiti. Gli ultimi, naturalmente. Spiego come funziona l’esame e provo a rassicurarli. Mi guardano, cercando di capire che tipo di presidente gli sia capitato. E così fanno con i commissari. Ma probabilmente sanno già tutto di noi, avendo raccolto su internet ogni genere di informazioni. Prima di cominciare corrono tutti in bagno. Nel frattempo scarichiamo la prova. Mentre facciamo le copie cercano di capire se c’è qualcosa che sanno fare. Quando leggono la prova, sembrano più rilassati. Dopo un’ora e mezza un ragazzo non ha scritto nulla. «Sono bloccato». Provo a scherzarci su per sdrammatizzare. Dopo un po’ fortunatamente riparte. Lascio i commissari a “sorvegliare” i ragazzi (che espressione terribile!) e mi metto a fare un po’ di scartoffie. Ogni tanto mi affaccio in aula. Il clima è tranquillo. Piano piano i ragazzi consegnano e vanno via.
Mentre il primo giorno di esami finisce, mi domando se tutto questo abbia un senso. E mi rispondo che no, non ce l’ha. Un rito di passaggio tra l’adolescenza e l’età adulta è fondamentale. Ma non può essere una carrellata di conoscenze. So già che ascolterò pistolotti imparati a memoria sulla prima guerra mondiale, mentre nel mondo capitano mille cose di cui la scuola non si occupa. Non se ne può più. Dovremmo provare a cambiare registro. Ci vorrebbe un esame in cui i ragazzi possano raccontare una storia, la loro storia, attraverso un’idea, un progetto. Potrebbero scrivere un racconto, realizzare una ricerca, elaborare una proposta professionale. Facciamo in modo che possano esprimere quello che sono, quello che hanno imparato e quello che sanno fare. Questa sarebbe una vera prova di maturità.