Dopo l’ennesima lite, mi chiama uno studente. «Preside, in classe le cose non funzionano. Può venire e ne parliamo insieme?». «Volentieri, ma evitiamo i processi contro qualcuno. Tutti si esprimano e si assumano le proprie responsabilità». Arrivo con due insegnanti e li invitiamo a dirci come vedono la situazione. Un ragazzo inizia: «Ci vorrebbe più severità verso chi sbaglia». Chiarisco subito l’approccio della scuola. «I provvedimenti disciplinari non bastano a risolvere le cose. Se serviranno, arriveranno anche quelli. Ma il cambiamento vero si realizza attraverso la fatica e il coraggio di guardarsi negli occhi e parlarsi». Piano piano si aprono. «Non è una classe vera, siamo l’uno contro l’altro». «Litighiamo senza sapere perché». «Stiamo insieme da anni, ma non ci conosciamo». Il quadro sembra chiaro e con gli insegnanti scegliamo un percorso. Faremo in modo che possano raccontarsi e conoscersi, lavorando sulle relazioni e sull’empatia. Avvieremo laboratori sulla mediazione del conflitto e iniziative che rafforzino lo spirito di gruppo. Vogliamo aiutarli a scoprire che stare insieme è più “vantaggioso” che stare da soli. Una strada che forse sarebbe utile anche a molti politici. Ma questo è un altro discorso.