Tutte le volte che si parla del voto di condotta mi viene in mente la Buoncostume, il reparto di polizia che aveva il compito di salvaguardare la morale pubblica.

Il mondo della scuola ha da sempre un atteggiamento ambivalente sulla condotta (che poi adesso si chiamerebbe comportamento). Lo si vede nelle discussioni tra insegnanti. «Questo studente è attento e disciplinato, merita nove». «Nove? Ma se sta sempre zitto. Bisogna premiare i ragazzi che partecipano». «È vero, non partecipa, ma fa tutto quello che gli si dice di fare». «Ecco, se a sedici anni un ragazzo fa tutto quello che gli si dice di fare, c’è da preoccuparsi. Altro che mettergli un buon voto, quattro gli si dovrebbe dare!». «E a questa studentessa quanto si mette?». «Arriva sempre in ritardo, disturba. Io sarei per il sei». «È irrequieta, ma ha una storia difficile di cui dovremmo tenere conto. Ed è una che studia e che ragiona con la sua testa». «Sentite, colleghi, però bisogna mettersi d’accordo. Cosa vogliamo valutare con questo voto di condotta?».

In questi giorni la discussione è stata riaperta dalle proposte del ministro Valditara. Personalmente credo che non ci sia modo di venire a capo di questa storia e che sarebbe meglio che il voto di condotta fosse abolito. Abbiamo idee troppo diverse. Poi mi domando se sia giusto che la scuola si metta a dare “patenti di moralità”, stabilendo quali siano la buona e la cattiva condotta. Come se ci fosse un metro di misura unico per attribuirle.

Non bisogna però essere ipocriti. Uno studente che rispetta le regole o che sostiene i compagni in difficoltà va valorizzato. Così come chi bullizza o rende impossibili le lezioni deve trovare un limite e una sanzione. Ma siamo sicuri che il voto di condotta sia lo strumento giusto per questo? Non credo. L’educazione è un processo complesso, che non ammette semplificazioni. E il voto di condotta è una semplificazione.

La scuola non è la Buoncostume. È un luogo dove adulti e ragazzi si incontrano e si ascoltano per costruire insieme il perimetro di una convivenza civile. Quando vediamo comportamenti che riteniamo sbagliati, dovremmo parlarci, capirne le ragioni, cercare nuovi equilibri relazionali. Anche aprire conflitti, se necessario. Ma sempre in una logica educativa. Se invece interpretiamo il nostro ruolo come se fossimo poliziotti a tutela della morale pubblica, forse abbiamo sbagliato mestiere.