Dalle cronache dei giornali salta agli occhi una notizia che riguarda Alberto Antonello. Alberto ha 19 anni ed è fratello di Andrea, un ragazzo autistico. Il padre Franco ha lasciato il lavoro per dedicare la sua vita ad Andrea. Insieme hanno fatto una serie di viaggi ed esperienze, che hanno coinvolto talvolta anche Alberto. Della storia di Franco e Andrea hanno parlato spesso i media, ispirando alcuni libri e un film, “Tutto il mio folle amore” di Gabriele Salvatores.
Venerdì scorso Alberto viene fermato dalla polizia alla guida di una Mercedes. In macchina sono in sei, uno oltre il dovuto. Al ragazzo viene anche trovato un po’ di hashish. Verificato che non avesse assunto alcoolici, la polizia gli ritira la patente, ma gli concede un permesso provvisorio per tornare a casa. I ragazzi invece vanno in discoteca e ballano fino alle otto. All’uscita Alberto riparte con la fidanzata. Lungo il tragitto l’auto esce di strada, finisce contro un platano e si ribalta nel fossato. La fidanzata di Alberto muore sul colpo. Lui finisce in coma ed è tuttora in pericolo di vita. Dagli esami del sangue risulta positivo all’alcool. Per i neopatentati, va ricordato, il limite alcolemico è pari a zero.
E’ una storia drammatica, con molti aspetti che fanno riflettere. Senza giudicare dinamiche familiari che non si conoscono, colpisce comunque il comportamento poco responsabile di un ragazzo cresciuto in una famiglia che invece ha espresso particolari atti di amore e di responsabilità. In poche ore Alberto ha violato molte regole. Regole del codice della strada, ma, soprattutto, regole del buon senso. Ha avuto anche la fortuna di essere intercettato dalla polizia, ma non è servito a nulla. La trasgressione delle regole è normale in un adolescente. Ma nella vicenda di Antonello, che in realtà è già un adulto, colpiscono la quantità di violazioni e l’ostinazione a farlo. Cioè l’incoscienza ripetuta del suo comportamento, che mette in pericolo anche la vita degli altri. Qualche giorno fa era finita sui giornali la notizia di ragazzi intenti a farsi selfie sui binari durante il passaggio dei treni in corsa. Sono molte le storie di questo tipo, che in realtà, in modo diverso, sono sempre accadute. Questi ragazzi non vogliono davvero morire, ma sembrano sentirsi vivi solo sfidando la morte. Noi adulti facciamo fatica a capirne le ragioni. A volte proponiamo loro una famiglia, una scuola, una società tristi e grigie, che alimentano il loro disagio e dove non trovano ragioni di vita. Se la droga, l’alta velocità, il rischio continuo e irresponsabile rappresentano per i giovani un modo di sentirsi vivi più forte della musica, dell’arte, delle relazioni affettive, qualcosa non torna. E non si rimette a posto semplicemente con qualche predica. Forse sarebbe meglio provare a riportare la vita nei luoghi che frequentano i nostri ragazzi