Mi segnalano un ragazzo che arriva per l’ennesima volta dopo il suono della campanella. Parto con la ramanzina di routine. «La scuola è iniziata da pochi giorni e hai già accumulato molti ritardi. Sai che quando superi il limite massimo non ti facciamo più entrare. Di questo passo tra qualche giorno ci siamo. Comunque oggi puoi andare in classe, ma forse è il caso che io parli con i tuoi genitori». Lui incassa, fa per uscire dalla presidenza, ma poi ci ripensa. Si volta indietro e mi dice: «Preside, vorrei provare a spiegarle perché arrivo in ritardo». «Siediti, ti ascolto volentieri». «Il punto è che gioco a calcio. E quest’anno sono stato preso dal Bologna. Esco da scuola e passa un pulmino che mi porta al campo. Mi alleno tutti i giorni e tutti i giorni rientro a casa a Firenze la sera alle 21». «Permettimi una domanda. Ma non potevi cercare una squadra qui nella tua città?». «Sì, ma il Bologna è la mia grande occasione, una società importante». «Però tu hai solo 15 anni, non ti sembra presto per fare questa vita? Come pensi di conciliare la scuola con un impegno sportivo così pesante?». «Francamente faccio fatica, rientro stanco, non ho molta voglia di aprire i libri e la mattina ho difficoltà a svegliarmi. Ma per arrivare a certi livelli nello sport bisogna fare sacrifici». «Capisco, però così però tu sacrifichi soprattutto la tua istruzione e rischi seriamente la bocciatura. I tuoi genitori cosa dicono?». «Capiscono e sostengono la mia scelta. Certo, stiamo valutando altre strade, come la scuola privata, dove è generalmente più facile essere promossi e sono più flessibili con gli orari». Lo saluto invitandolo a riflettere bene su quello che sta facendo. Ma lui è molto convinto. Come lo siamo stati quasi tutti alla sua età.
Ho collaborato per molti anni con il settore giovanile della Federcalcio e di queste storie ne ho sentite molte. Storie di procuratori che avvicinano bambini in tenera età prospettando il sogno di una grande squadra senza passare prima dai genitori. E storie di bambini portati lontano dalla loro terra e dai loro affetti, con la complicità delle famiglie, nella speranza di diventare ricchi e famosi. Salvo poi scoprire che solo uno su mille ce la fa, come dice una famosa canzone. Ma ho visto anche storie di sport molto belle. Storie di allenatori appassionati e di ragazzi bravi sia nello sport che nella scuola. Perché in realtà le due esperienze sono conciliabili, anzi si possono aiutare reciprocamente. A patto di utilizzare il buon senso. Si dice sempre che dovremmo tenere al centro il bene dei ragazzi. Ma non sempre lo facciamo. Basterebbe interrompere le guerre tra noi e sederci intorno a un tavolo per capire quale è davvero il loro bene. Ma dovremmo farlo tutti insieme. Insegnanti, allenatori e genitori.