Sono in riunione con le vicepresidi. La custode ci comunica che il padre di un nostro studente ci vorrebbe parlare. È con il figlio. Entrano, il padre davanti e il figlio dietro, a testa bassa. Sono cinesi e parlano poco l’italiano. Il padre racconta che qualcuno lo ha chiamato da scuola per le assenze del ragazzo e vuole saperne di più. Evidentemente non guardano il registro elettronico. Controlliamo la situazione, effettivamente risultano moltissime assenze. Il padre è sconcertato. Dice cose in cinese al figlio con tono arrabbiato. Il figlio non risponde. Rimane sempre a testa bassa. Il padre allora si rivolge a noi. «Io vado lavoro alle otto. Penso lui andare a scuola, invece no. Lui torna dopo, mai detto che non entra». Chiediamo spiegazioni al ragazzo. Dopo un lungo silenzio, mormora una sola parola, che ci intenerisce. «Difficile».

Proviamo a dire qualcosa. «Se trovavi la scuola difficile, perché non hai parlato con noi o con i tuoi genitori? Potevamo cercare insieme una strada. Come mai non lo hai fatto?» Si rinchiude di nuovo nel mutismo. Con il padre ragioniamo allora sulle alternative possibili in altre scuole della zona. Gli scriviamo nomi e contatti su un foglio per aiutarlo. Il ragazzo assiste in disparte, sempre in silenzio, sempre a testa bassa. Come se la cosa non lo riguardasse. Dopo un po’ ci salutiamo.

L’immagine di quello studente a bocca chiusa e testa bassa rimane nella nostra testa per tutto il giorno. Nella sua testa invece chissà cosa c’è. E chissà dove è stato in tutti quei giorni in cui non è venuto a scuola. Noi non lo abbiamo capito.

Istintivamente, pensando a questo ragazzo, mi è venuta in mente “A bocca chiusa”, la bella canzone di Daniele Silvestri che adesso ha ritrovato nuova vita grazie al successo del film “C’è ancora domani” di Paola Cortellesi. Di ragazzi a testa bassa e bocca chiusa ce ne sono tanti, troppi. Sono ragazzi che tengono tutto dentro. Per motivi che non conosciamo quasi mai. Ragazzi introversi, a volte depressi. Ragazzi che parlano senza guardarci negli occhi. Ragazzi raggomitolati in loro stessi come per proteggersi. Quando li incontro, provo sempre un senso di vergogna. Perché ho il timore che la testa gliela abbiamo abbassata noi. Genitori, insegnanti, presidi. Non si tratta di ragazzi presuntuosi, ai quali farebbe anche bene ogni tanto abbassare la testa. Sono ragazzi che in qualche modo sono stati umiliati. E che ci interrogano sui nostri fallimenti di educatori.