Non passa settimana senza che i giornali riportino casi di femminicidio. Storie che si ripetono con modalità diverse, eppure sempre uguali. Raccontano di uomini violenti, persecutori, che non ammettono che una donna possa dire loro di no.
Quegli uomini hanno una famiglia, hanno frequentato scuole, forse hanno un lavoro, certamente incontrano conoscenti ed amici. Ognuno dovrebbe domandarsi se ha fatto tutto quello che poteva per evitare l’evento tragico. Se ha osservato e ascoltato con la giusta attenzione. Se ha colto i segnali che non possono non esserci stati. Se ha dato il buon esempio. Se ha detto o fatto cose che in qualche modo hanno contribuito a far capitare quello che è capitato.
E la scuola? La scuola non fa abbastanza. Siamo troppo presi dallo svolgimento dei programmi e non troviamo tempo per discutere di femminicidio quanto dovremmo. Quando va bene, ci limitiamo a iniziative sporadiche. Oppure ci affidiamo alla buona volontà di singoli docenti, che ne parlano con i propri studenti in classe. Non basta, non può bastare. Siamo di fronte a una vera emergenza e tutti dovremmo trattarla come tale, anche le scuole.
Per fare questo, dovremmo convenire che a scuola si fa educazione a tutto campo e non solo trasmissione di conoscenze disciplinari. A quel punto discutiamo del come. Certamente serve partire dalle statistiche, che sono impressionanti, e dalle storie reali, per evitare di fare solo astratti pistolotti morali. Servono poi naturalmente percorsi di educazione affettiva, che finalmente cominciano a comparire in alcune scuole.
Serve soprattutto che cambino le parole e i comportamenti quotidiani. Dei ragazzi e degli adulti. Dei maschi e delle femmine. Molte delle cose che diciamo e che facciamo sono intrise di un maschilismo strisciante e di mancanza di rispetto per le donne, per la loro libertà e la loro autonomia. Dovremmo guardarci e ascoltarci di più. E farci aiutare da qualcuno. Meglio, da qualcuna. Scopriremmo cose di noi che non sappiamo, cose su cui lavorare per imparare a diventare meno molesti.
22 Aprile 2025 alle 12:59
Quando ho messo al mondo il mio primo figlio maschio è stato l’atto di amore che si è accodato al primo, quando lui ha scalciato in me per la prima volta, poi quando nel travaglio l’ho consegnato alla vita e quando gli ho promesso, prendendolo fra le braccia, l’impegno e il dovere ad educarlo e a crescerlo nello stesso amore con il quale era stato concepito.
Ho messo al mondo un bambino che ho “innaffiato” di amore, e intorno a lui ho curato il prato in cui negli anni sarebbe fiorito, alimentando le sue radici con una linfa di attenta tenerezza. Mi sono sentita amata come la fata delle fiabe, discussa poi come la madre che permette o proibisce, la madre che lo sente sfuggire fra le dita via via che si fa grande e deve imparare ad aprire la mano e a lasciarlo volare, pur lasciando il suo calore sulle ali, la madre che lo segue ma gli permette di scegliere la sua vita, che “sente” le sue gioie e i suoi dolori e tutto rispetta nel silenzio e nell’attesa. Ma sopratutto sono stata una madre che ha cercato di prepararlo alla vita, presente sempre, discreta e disponibile, pronta al dialogo e all’invito a condividere quella parola che spesso è più forte ed utile di un timoroso e stanco silenzio di amore.
Ho dato l’esempio, abbiamo dato l’esempio, tutti nella famiglia, insegnando il rispetto della vita in ogni sua forma, eliminando il giudizio e accettando ogni diversità, insegnando che ognuno di noi ha il diritto di scegliere e di cambiare, di godere di un libero arbitrio e di sbagliare, insomma di VIVERE UNA VITA CHE GLI APPARTIENE ED UNA LIBERTA’ DI CUI HA IL DIRITTO DI GODERE.
Oggi, a leggere il suo commento, metto me come madre in discussione sul banco degli imputati e con me metto idealmente tutte le madri di quei figli maschi, effettivi o potenziali carnefici , che in nome di una assurda egemonia di possesso strappano la vita a chi si è solo permesso di dire di no….
In ogni femminicidio appaiono sempre due protagonisti: chi ha colpito e chi ha perso la vita. Ma dietro ad ognuno di loro c’è sempre qualcuno che non ha ascoltato abbastanza, che ha temuto o finto di non cogliere malesseri e che ha pensato che tutto questo succede agli altri e non nella loro quotidianità. Senza pensare, invece, che la cronaca siamo noi e la famiglia può fare tanto per impedire che questa tragedie continuino ad offendere la nostra dignità, calpestando la vita di chi ha solo la colpa di essere nata donna