La fine dell’anno è un momento di bilanci e riflessioni. Per tutti, anche per noi della scuola abituati a ragionare ad anno scolastico e non ad anno solare. Conversando con un amico che non sentivo da tempo, alla domanda “Come va a scuola?”, mi è venuto da soffermarmi su quella che oggi sento essere la questione principale da affrontare. Adulti e ragazzi si frequentano tutti i giorni, ma non si conoscono davvero. Ci incrociamo nei corridoi e nelle aule, ci parliamo, ci sorridiamo, litighiamo, facciamo delle cose insieme, ma non ci conosciamo. Una cosa normale, si potrebbe dire, data la differenza di età. È successo a tutte le generazioni e succederà sempre. Ma a me sembra ci sia qualcosa di più.

Non siamo di fronte solo a una profonda diversità, alla naturale differenza di punti di vista dovuta all’anagrafe. Quando parli con i ragazzi sembra che vengano da un altro pianeta. Hanno uno sguardo sulle cose che ci colpisce, si concentrano su aspetti che a noi sembrano del tutto irrilevanti, usano le parole come se avessero un altro dizionario della lingua italiana. È una cosa difficile da spiegare. A volte li chiamiamo in presidenza per far notare comportamenti che ci sembrano gravi e loro cascano dalle nuvole. Lo fanno in modo sincero, spiazzante. Non sembrano rendersi conto delle cose o se ne rendono conto in un modo curioso, diciamo. Mi sono domandato quale possa essere la ragione di tutto questo e cosa si può fare.

Forse una generazione che quotidianamente guarda anime, legge manga e mangia sushi ha costruito un modo di essere profondamente diverso da chi è cresciuto con i romanzi dell’Ottocento e i film occidentali. Non è però solo un fatto culturale. È una sorta di mutazione genetica, come se i ragazzi avessero costruito una sensibilità tutta nuova e per noi misteriosa. Oltre un certo limite non possiamo capirli. Non abbiamo occhi e orecchie giusti. E forse va bene così. Però una cosa la possiamo fare. Chiedere a loro di raccontarci i loro mondi interiori. Ma lo faranno solo se accantoneremo le nostre mille sovrastrutture e non saremo giudicanti. Quello che racconteranno non ci tornerà. Ma ci consentirà almeno di intravedere qualcosa di loro. E forse anche di costruire una scuola migliore.

Rimarrà comunque il valore del gesto, aver restituito ai ragazzi la parola e mostrato che siamo disponibili ad ascoltarli, a lasciarci sorprendere. Questo merita di essere fatto. Questo è quello che auguro al mondo della scuola per il 2024.