In questa settimana abbiamo tutti celebrato in diversi modi la Giornata della Memoria. Nel corso dell’anno, di giornate che ricordano eventi passati ce ne sono molte. Ogni volta mi interrogo sul loro senso e su come vadano affrontate a scuola. Personalmente non amo le celebrazioni e le giornate commemorative. Ho sempre il timore che siano modi per “lavarsi la coscienza” facilmente, rimuovendo il fatto che la partita vera si gioca negli altri 364 giorni. È lì, nei nostri comportamenti quotidiani, che si misura quanto davvero abbiamo interiorizzato i valori che quelle giornate esprimono.
Comunque, certamente occorre conservare il ricordo di quello che è successo perché, come si dice, dovrebbe aiutarci a capire da dove veniamo e ad evitare di ripetere i soliti errori. Dovrebbe, perché poi invece spesso purtroppo la storia si ripete, con i suoi errori e i suoi orrori. E non è detto che chi studia il passato poi quegli errori non li commetta di nuovo. Ho la sensazione che la questione sia un po’ più complicata.
Molti ragazzi a scuola hanno avuto lezioni sulle tragedie del nazismo, del fascismo e del comunismo, ma le percepiscono come storia antica, come qualcosa che non riguarda il loro presente. E non credo serva ammonirli continuamente sul rischio che invece quelle tragedie possano ricapitare. Anche perché i tempi cambiano e nulla torna davvero allo stesso modo.
Forse, intanto, a scuola dovremmo fare in modo che lo studio della storia non coinvolga solo la dimensione cognitiva, ma anche quella emotiva. Andare nei luoghi dove le cose sono avvenute o incontrare i testimoni, fare cioè esperienze “reali”, fa certamente in modo che gli eventi passati rimangano maggiormente impressi negli studenti. Poi potremmo aprire un confronto con le ragazze e i ragazzi, chiedendoci insieme a loro dove oggi si corrano i rischi di privazione della libertà e negazione dei diritti. Piuttosto che un ricordo pedissequo di quello che è stato, rendere attuale la memoria ispirerebbe nei nostri ragazzi una cittadinanza più moderna e consapevole.
30 Gennaio 2025 alle 9:11
Questa è una storia che ho vissuto in prima persona, un attimo di vita diviso da me alcuni anni fa con una persona che chiamerò Rachele e che viveva in una bella villa sulla via Trieste.
Andavamo spesso a trovarla… Viveva sola , la sua casa era spesso in penombra , appariva sempre gentile, forte e tenace e qualche volta, parlando, accennava di essere ebrea quasi con distacco ed apparentemente senza emozione…
” Io non sono niente – diceva – Non ho religione, non ho un credo, sono solo un essere vivente..Non voglio ricordare, ma nemmeno dimenticare…”
Da me veniva volentieri, parlavamo e ascoltavamo musica.I tratti del viso erano distesi,le spalle magre rilassate, ogni tanto l’ombra di un sorriso le ammorbidiva lo sguardo. Era una donna terribilmente forte … e anche terribilmente sola…
Un giorno eravamo sul suo balcone, la serata era tiepida e quieta , c’era pace e il silenzio che invita alla confidenza .. Lei cominciò a parlarmi della sua famiglia, persone che via via prendevano vita nel momento in cui lei me li rivelava…
-Quella stanza vicino alla sala era camera mia – mi disse, come se riprendesse il racconto di una storia iniziato molto tempo prima – Un giorno ci entrò mio padre, serio. Mi disse con voce agitata di raccogliere i miei vestiti e di tenermi pronta, che avrei dovuto partire quella sera stessa con un gruppo di persone che sarebbero arrivate presto a prendermi..
Io gli chiesi perchè, ma lui non mi rispose.
– Non c’è tempo – disse, poi si frugò nella tasca e mi mise nella
mano qualcosa di pesante, che io strinsi tra le dita sapendo che era importante. Era un guanto pieno di oggetti d’oro, anelli, orologi, bracciali della mamma e della nonna, e i gemelli del babbo.
– Portali via, potrai averne bisogno – disse, senza guardarmi
– E la mamma, e gli altri? – domandai, sapendo già che la risposta non mi sarebbe mai stata data.
– Non c’è tempo.. – mi ripetè. E se ne andò dandomi le spalle, senza un bacio, senza debolezze, staccandosi da me nel modo più indolore, non toccandomi, non abbracciandomi, non volendomi sentire più parte fisica di sè per non soffrire e non farmi soffrire. E quella fu l’ultima volta che io lo vidi, l’ultima volta che io vidi la mia famiglia, che mi sentii di farne parte viva…
Si alzò. Non riuscivo a capire se avesse parlato con me o con sè stessa e quando ritornò aveva tra le mani qualcosa che mi mostrò, aprendo con tenerezza il palmo della mano. Era un guanto sformato, sfilacciato, scucito fra le dita , ma ancora pieno di quei monili il cui valore, adesso, era incommensurabile e che lei era riuscita a salvare e a tenere con sè , come se avesse in quel modo ritrovato e protetto quegli affetti perduti nei campi di sterminio.
– Ecco, questa è la mia famiglia.. – mi disse – E questo io sono! – E lo disse con gli occhi abbassati su quel tesoro , la faccia dura e contratta nel buio, gli occhi come due fari di luce..
Le ho voluto raccontare questa mia esperienza che rivivo spesso nei ricordi e non solo nei “giorni della memoria”.
Stanno sparendo gli ultimi sopravvissuti, si va avanti e la storia si ripete e l’uomo non vuole imparare dalla storia per evitare gli errori e la rovina che commette e che lo rende sempre meno degno di essere chiamato “uomo”
E’ vero… Più di ogni libro, più di ogni cerimonia conta la voce e lo sguardo di chi ha vissuto e di chi porta addosso e dentro di sè le ferite profonde e mai guarite ..
Olocausto di un popolo, ma sopratutto olocausto di tutti noi che ci ostiniamo a negare la dignità,il rispetto e il diritto alla vita offendendo nella vergogna la nostra umanità